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Maurizio Pallante

Maurizio Pallante è un eretico e un irregolare della cultura. Laureato in lettere, si occupa da molti anni di economia ecologica e tecnologie ambientali. È stato anche insegnante e preside di una scuola. Nel 2007 ha fondato il “Movimento per la decrescita felice” e da allora tiene da 70 a 80 conferenze ogni anno in giro per l’Europa. Ha scritto decine di saggi, alcuni con altri autorevoli autori, ma anche libri di poesie, libri per ragazzi di scuole di vario grado e romanzi.

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L’IMBROGLIO DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE

La parola «sostenibilità» e la locuzione «sviluppo sostenibile» esprimono lo stesso concetto o invece due concetti opposti? La biosfera può continuare ad alimentare lo sviluppo economico? La fotosintesi clorofilliana può sostenere un incremento dei consumi di materia che del resto hanno già superato le sue capacità di rigenerazione? Può metabolizzare quantità crescenti di sostanze di scarto biodegradabili che hanno già superato la sua capacità di assorbirle? Sono sostenibili ulteriori aumenti dei consumi di risorse non rinnovabili e dei rifiuti non biodegradabili che si accumulano sulla superficie terrestre e negli oceani?

Come mai, nonostante 26 conferenze mondiali (Cop) in cui gli esperti di 196 Paesi si sono confrontati sulle strategie per ridurre le emissioni di CO2, la sua concentrazione in atmosfera è aumentata?

Perché non si riconosce che la scelta prioritaria per risolvere questo problema non è la diversificazione dell’offerta energetica – il nucleare pulito prodotto da inesistenti centrali di quarta generazione, l’idrogeno, il metano con cattura dell’anidride carbonica –, ma è la riduzione della domanda, che si può ottenere eliminando sprechi e inefficienze e soddisfacendo con le fonti rinnovabili il fabbisogno residuo? Ridurre la domanda di energia consente di ridurre sia le emissioni, sia i costi delle bollette, e di utilizzare i risparmi sui costi di gestione per ammortizzare gli investimenti. Il sinonimo di «sostenibilità» è «conversione economica dell’ecologia».

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ULTIMA CHIAMATA “Cosa ci insegna la pandemia e quali prospettive può aprirci”

Questo libro si apre non per caso con una riflessione su un profetico testo di Giacomo Leopardi, il Dialogo di un folletto e di uno gnomo, in cui ci si interroga sulle cause dell’estinzione del genere umano.

L’autore si sofferma quindi sulla situazione determinata dalla pandemia di Covid-19 – una crisi economica senza precedenti nella storia del capitalismo e una drammatica crisi sanitaria a livello mondiale -, mettendola anche in relazione con la grave crisi ecologica che affligge il pianeta (e documentando l’inefficacia delle decisioni politiche assunte per contrastarla senza compromettere la crescita economica). L’intreccio di queste diverse crisi viene interpretato come la fase terminale dell’epoca storica iniziata nella seconda metà del ‘700 con la Rivoluzione industriale. Solo una conversione economica dell’ecologia, finalizzata a rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale – argomenta Pallante – può aprire una nuova fase nella storia umana. Non saranno i velleitari tentativi di ricostruire l’ordine sociale precedente la pandemia a farci superare questo tornante, ma la capacità di capire cosa essa ci insegna e quali prospettive può aprirci.

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IL DIRITTO DI NON EMIGRARE

Coloro che si pongono come obiettivi etici e politici la sostenibilità ambientale, l’equità e la solidarietà non dovrebbero compiere l’errore di ridurre la complessità dei problemi posti dalle migrazioni alla gestione dell’emergenza, e la gestione dell’emergenza alla contrapposizione tra accoglienza e respingimento dei migranti. Aiutare le persone in pericolo di vita è un obbligo morale prima ancora che giuridico, ma la solidarietà, che non consente di ignorare la sofferenza, non ne elimina le cause. Le sofferenze generate dalle migrazioni si riducono solo se si riducono i flussi migratori. E questi possono calare solo se diminuiscono l’iniquità sociale e l’insostenibilità ambientale che inducono, o costringono, i più indigenti a emigrare dai loro Paesi, in cui non riescono più a ricavare il necessario per vivere. Per chi è consapevole che le attuali migrazioni sono un’esigenza del modo di produzione industriale nella fase storica della globalizzazione, l’accoglienza è solo la prima tappa di un percorso politico che i Paesi di arrivo devono progettare di comune accordo con i Paesi di partenza dei flussi migratori, nella consapevolezza che quello occidentale non può costituire il modello di riferimento per i popoli poveri, perché, pur rappresentando il massimo risultato evolutivo raggiunto dalla storia, ha iniziato una rapida parabola involutiva, in cui sta trascinando tutta la specie umana.

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Ci stiamo avviando alla fine dell’epoca storica iniziata nella seconda metà del ‘700 con la Rivoluzione Industriale. La crisi economica continua a far sentire i suoi effetti negativi da quasi un decennio. Nei Paesi industrializzati i livelli della disoccupazione aumentano soprattutto tra i giovani. La corruzione politica invade tutti i gangli del potere in forme sempre più spregiudicate e sempre più spesso impunite. Allo stesso tempo tutti i fattori della crisi ambientale continuano ad aggravarsi, anche perché i partiti non sono in grado di affrontarli. Non hanno un programma politico incardinato sui valori della sostenibilità ambientale, dell’equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani e della solidarietà. A loro interessa soltanto conquistare la maggioranza dei voti per governare nel modo che considerano più rispondente alle esigenze dei propri elettori, disinteressandosi della sostenibilità da cui dipende la continuità della vita sulla Terra. E del resto non si può pensare che un programma politico radicalmente nuovo possa essere gestito costituendo un partito con le stesse caratteristiche di quelli esistenti. Perché, come ricordava qualcuno, non si può mettere vino nuovo in otri vecchi. Il vino nuovo va messo in otri nuovi (Luca 5,37-38).

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Non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Facciamocene una ragione.
Le limitazioni alla democrazia, il potere dispotico esercitato sui popoli dalle istituzioni sovranazionali, la prevalenza della finanza sulla politica, sono tutti effetti prodotti dall’economia della crescita continua. Un sistema che sta giungendo alla fine e che, come un animale ferito, mostra il suo volto peggiore e aggressivo, pronto a trascinare tutto e tutti nel baratro.
Per arginare questa potenza distruttrice non basta riformare il sistema, ma è necessario cambiare l’orizzonte culturale e le categorie attraverso le quali pensiamo e interpretiamo il mondo. Le grandi famiglie politiche tradizionali non sono in grado di comprendere i rischi che l’umanità corre in questa fase storica, in cui il modo di produzione industriale si sta estendendo a tutto il mondo. Destra e sinistra sono categorie del passato. E per certi versi incarnano anche parte del problema. Se vogliamo garantirci un futuro dobbiamo smetterla con la crescita.

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«Il confronto politico tra destra e sinistra si è sempre svolto a partire da una comune valutazione positiva del modello di produzione industriale.
Entrambe lo hanno considerato un progresso perché, grazie all’evoluzione scientifica e tecnologica, ha accresciuto la produzione di merci, consentendo all’umanità di entrare in un’epoca d’abbondanza senza precedenti. Ma oggi la crescita ha oltrepassato le capacità del pianeta di fornirle la quantità crescente di risorse di cui ha bisogno, e il mercato induce a scatenare guerre per tenere sotto controllo le zone del mondo più ricche di risorse, suscitando nei paesi meno industrializzati ondate migratorie incontenibili.
Per bloccare le cause di questi processi distruttivi è necessario sviluppare tecnologie più avanzate, finalizzate ad accrescere l’efficienza con cui si trasformano le materie prime. Occorre avviare una decrescita selettiva, fondata sulla riduzione degli sprechi e dell’impronta ecologica dell’umanità. Se si abbandona l’ideologia della crescita, che ha accomunato la destra e la sinistra, è anche possibile articolare in maniera diversa e rilanciare la tensione all’uguaglianza. Una critica alla gestione della destra di questa fase storica, e una presa di coscienza che la sconfitta della sinistra sia stata la sconfitta dell’applicazione storica che ha dato dell’uguaglianza, non dell’idea di uguaglianza. Del resto, come ha avuto un inizio storico, la diade “destra–sinistra” potrebbe avere fine con la fine della possibilità di continuare a far crescere la produzione di merci.

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Tutti i tentativi di far ripartire la crescita per superare la crisi economica mondiale non hanno prodotto, sino ad ora, l’effetto desiderato.
Oltre a ciò, la potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti liquidi, solidi e gassosi, non metabolizzabili dalla biosfera. Per tutte queste ragioni, secondo Maurizio Pallante, occorre cominciare a costruire modelli economici e produttivi alternativi, a instaurare relazioni umane fondate sulla collaborazione e la solidarietà, a promuovere l’autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali, a realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli, a garantire il futuro delle generazioni a venire grazie al modello della decrescita felice proposto in questo volume.
La vita monastica, che ha rappresentato per secoli uno dei modelli vincenti di utilizzazione delle risorse e di aggregazione sociale, ritrova in questo momento storico la sua attualità l’organizzazione comunitaria, il rapporto tra la dimensione del lavoro e la dimensione spirituale degli antichi monasteri possono offrire indicazioni importanti a chi voglia fondare i monasteri del terzo millennio e attuare la rivoluzione dolce di cui c’è bisogno oggi.