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Dubai che “du bai”

Se arrivassi a casa e scoprissi di aver dimenticato il rubinetto della vasca aperto e l’acqua tracimasse dal bordo allagando tutta casa, non mi sognerei neanche lontanamente di riunire tutto il condominio, per metterci d’accordo su come ridurre il flusso dell’acqua. Mi precipiterei invece a chiudere immediatamente e completamente il rubinetto. Nonostante ciò, per un po’, l’acqua continuerebbe a fuoriuscire e se volessi essere sicuro, dovrei anche svuotare un po’ la vasca. Ecco per quanto riguarda i gas ad effetto serra, la vasca (l’atmosfera) sta tracimando da quasi 2 secoli e ancora ci ostiniamo a fare riunioni di condominio (le C.O.P., Conference of Parties), con Oltre 70.000 delegati, negoziatori sul clima e altri partecipanti da 198 paesi, che producono gas serra con i loro viaggi, per vedere se e come ridurre leggermente l’incremento annuale di emissioni. Ridurre un incremento equivale, usando la metafora di prima, solo a chiudere parzialmente il rubinetto e quindi la vasca continuerà a strabordare di acqua e a causare, nel caso dell’atmosfera, un continuo innalzamento della temperatura, del suolo e dell’acqua.

Sarebbe una situazione a dir poco comica, se non ci fosse di mezzo la sopravvivenza della nostra specie su questo Pianeta. Infatti, l’innalzamento della temperatura mondiale media (già 1.3 oC ad oggi), nel modo repentino con la quale sta accadendo (poche decine di anni), alla lunga non sarà compatibile con la vita umana; ad essere in pericolo non é certo la sopravvivenza della vita o della Natura o del Pianeta stesso, ma quella dell’Homo Sapiens Sapiens (2 volte, se non fosse chiaro).

Ora, il 99% degli scienziati mondiali, usando modelli al computer che da almeno venti anni prevedono esattamente tutti i cambiamenti climatici, anzi attualmente le cose risultano peggiori del previsto, sono concordi che l’accelerazione è dovuta alle molteplici attività umane, in particolar modo quelle che utilizzano prodotti petroliferi, ma anche la produzione di cemento e di cibo. Quindi sappiamo esattamente dov’è il rubinetto da chiudere. Inoltre, sappiamo anche che negli ultimi 10.000 anni abbiamo dimezzato il numero di alberi presenti sul pianeta (da 6.000 a 3.000 miliardi), di cui 2.000 miliardi tagliati negli ultimi 2 secoli, e che gli alberi assorbono l’anidride carbonica, che è la maggior responsabile dell’eccesso di effetto serra; quindi, abbiamo anche capito come mai la vasca è diventata più piccola e si è riempita così in fretta.

Nell’ultima “riunione di condominio” del pianeta appena terminata, la ventottesima C.O.P., ci si focalizza ancora sulla “riduzione dell’incremento” delle emissioni antropiche (che vuol dire chiudere leggermente il rubinetto) e di “transizione” ecologica, dalle fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili. Nel documento finale “Global Stocktake” ovvero bilancio globale, sottoscritto da tutti i paesi, per la prima volta dal 1995 in riferimento alle fonti fossili di energia, si abbandona infatti il termine “eliminazione graduale” (phasing-out) precedentemente usato dal 1995, per adottare invece “uscita progressiva/transizione” (transitioning away). Voi ne capite la differenza? Mah?! Dopo 28 anni, si gioca ancora sulle parole.g

Il documento riporta le 8 fasi che erano già nell’articolo 28 dell’Accordo di Parigi e sono:

  1. Triplicare la capacità delle energie rinnovabili a livello globale e raddoppiare il tasso medio annuo globale di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030.
    Commento:
    Per quanto riguarda il secondo paragrafo se, come é stato finora, il miglioramento dell’efficienza energetica viene praticamente annullato dall’aumento dei consumi, sinceramente non vedo nessun vantaggio.  Diventa solo un alibi per poter consumare di più.
  1. Accelerare gli sforzi verso l’eliminazione graduale dell’energia prodotta attraverso il carbone.
    Commento:
    La domanda mondiale di carbone non accenna a ridursi. Dopo essere salita al massimo di sempre nel 2022 a 8,3 miliardi di tonnellate (+3,3% sul 2021), si prevede che rimanga su questi livelli nel 2023 e 2024. Siamo ancora al carbone come nell’800!!!!
  1. Accelerare gli sforzi a livello globale verso sistemi energetici a zero emissioni nette, utilizzando combustibili a zero o basse emissioni di carbonio ben prima o entro la metà del secolo
    Commento:
    “Accelerare gli sforzi” vuol dire tutto e niente a mio parere. Comunque questo punto apre la strada, come vedremo meglio in un punto successivo, all’energia nucleare, perché considerata “carbon free”
  1. Abbandonare (transitioning-away) i combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando in questo decennio critico, in modo da raggiungere emissioni zero entro il 2050.
    Commento:
    Voi riuscite a capire cosa significhi in modo giusto, ordinato ed equo?
  1. Accelerare le tecnologie a zero o basse emissioni, tra cui le energie rinnovabili, il nucleare, quelle di abbattimento e riduzione come la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, in particolare nei settori difficili da abbattere e produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio.
    Commento:
    Uno dei cavalli di battaglia di chi sostiene il nucleare è che le centrali nucleari non emettono CO2 e che, quindi, il ricorso massiccio all’atomo è una reale opportunità per contrastare il cambiamento climatico. Se però si ragiona in una logica di filiera, analizzando il ciclo di vita complessivo della centrale, si scopre che solo le operazioni nel reattore sono “carbon free” (cioè senza emissioni di CO2). Tutte le altre operazioni della filiera del combustibile, dall’estrazione dalle miniere, frantumazione e macinazione, fabbricazione del combustibile, arricchimento e gestione delle scorie, oltre che la stessa costruzione della centrale, il suo futuro “decomissioning” per non parlare della gestione di tutte le scorie radioattive, necessitano di parecchia energia da fonte fossile e conseguentemente provocano forti emissioni di CO2. Francia, Paesi Bassi, Stati Uniti, Canada e Giappone sono stati tra i 22 Paesi che hanno firmato una dichiarazione che chiede di triplicare la capacità di produzione di energia nucleare tra il 2020 e il 2050, al fine di ridurre la dipendenza da petrolio, gas e carbone. Tra i firmatari figurano 12 Stati membri dell’UE: Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Ungheria, Moldavia, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Svezia

    Finora qualsiasi sistema tecnologico di abbattimento o cattura della CO2 risulta almeno 1000 volte meno efficiente, a parità di energia e costi, di una equivalente soluzione biologica, ovvero piantare alberi. Gli alberi li abbiamo già, non dobbiamo inventarli, assorbono anche molti altri inquinanti e ci danno l’ossigeno necessario alla nostra sopravvivenza. Peccato però che questa soluzione farebbe guadagnare molto meno e non il settore tecnologico.

    Immagazzinare energia sotto forma di idrogeno e poi riutilizzarla quando necessario é attualmente molto inefficiente, anche nell’ipotesi che l’idrogeno venga prodotto utilizzando energie rinnovabili. É una questione di conversione dell’energia, la produzione tramite elettrolisi, ha efficienze che variano dal 50 al 70%. Tenendo conto però dei vari rendimenti della filiera energetica (impianto produzione energiaimpianto fabbricazione idrogenopila a combustibile), una cospicua parte dell’energia in entrata viene inevitabilmente persa (si può arrivare a perdere oltre il 70% dell’energia in entrata secondo i metodi di produzione dell’energia elettrica iniziale per produrre l’idrogeno, e dei metodi di produzione dell’idrogeno). Tanto per un confronto, stoccare l’energia elettrica in accumulatori (batterie) al Litio, ci restituisce il 96% quando andiamo ad utilizzarla. É ovvio che il sistema di accumulazione a batterie “tradizionali” non é adatto ai settori industriali ad alto consumo (industria pesante), in questi casi l’idrogeno potrebbe essere una valida alternativa ai combustibili fossili, nonostante l’inefficienza di cui abbiamo parlato prima e a patto che venga prodotto usando energie rinnovabili (idrogeno verde)
    Correntemente, la produzione dell’idrogeno avviene per il 48% da gas naturale, per il 30% dal petrolio, per il 18% dal carbone; l’elettrolisi dell’acqua viene impiegata per produrre soltanto il 4% dell’H2. 
  1. Abbattere le emissioni diverse dalla CO2 a livello globale, comprese in particolare le emissioni di metano, entro il 2030.
    Commento:
    Pur essendo una sostanza presente in natura, oltre la metà del metano in atmosfera è generato dalle attività umane. Il 41% ha origini naturali (in particolare dalle zone umide e dagli incendi di incolto), mentre il 59% ha origine antropica. Proviene in particolare dal settore agricolo, ma nonostante ciò, gli osservatori notano che la dichiarazione non contiene obiettivi quantificati e non menziona il bestiame. Vogliamo dirlo che questo punto ha a che fare con l’attuale produzione di cibo sotto forma di animali? É stato calcolato che il 16% non raggiunge neanche la tavola (si tratta di 18 miliardi di animali) e che 52 milioni di tonnellate di carne viene buttata. A proposito di fare ogni sforzo per aumentare l’efficienza produttiva!
    In realtà un documento che si focalizza proprio sulla produzione di cibo é uscito dalla COP 28 appena conclusasi a Dubai, ma al di fuori dell’accordo globale, sottoscritto da solo 134 paesi. Esso ribadisce un obiettivo chiaro: ridurre del 50% il consumo di carne entro il 2050.
  1. Accelerare la riduzione delle emissioni derivanti dal trasporto stradale, impiegando varie modalità, anche attraverso lo sviluppo delle infrastrutture e la rapida diffusione di veicoli a zero o basse emissioni.
    Commento:
    Questo essenzialmente vuol dire elettrificazione del parco auto, quindi aumento della produzione di auto e rottamazione delle ancor funzionanti a motore endotermico. Maggiore quindi produzione di CO2 e consumo di energia, sia per produzione che smaltimento. Nessun accenno neanche remoto a sforzi per ridurre la quantità di automobili, alla condivisione e all’aumento del trasporto pubblico.
  1. Eliminare i sussidi inefficienti ai combustibili fossili, che non affrontano la povertà energetica o le semplici transizioni
    Commento:
    “Sussidi inefficienti”? “Povertà energetica”? “Semplici transizioni”?
    Secondo il Fondo Monetario Internazionale, globalmente nel 2022 i sussidi all’industria dei combustibili fossili sono ammontati a 7.000 miliardi di dollari, pari al 7,1% del Pil mondiale.

 

Nell’intero documento Global Stocktake non si fa menzione alcuna di riduzione degli SPRECHI: energetici, di cibo, di acqua, di risorse planetarie. Non basterà mai una “transizione” alle fonti rinnovabili se queste dovranno far fronte ad una domanda di energia sempre in crescita e a sprechi esorbitanti, così come non ha senso sostituire tutte le auto a motore endotermico con quelle elettriche, avremmo bisogno di ancor più energia, per costruirle e per caricarle. Non basta aumentare l’efficienza delle apparecchiature elettriche ed elettroniche se le vendite aumentano in continuazione e di conseguenza i consumi.

Unica nota positiva, ma sempre sulla carta, è che i delegati riuniti a Dubai hanno concordato l’operatività di un fondo che dovrebbe aiutare a compensare economicamente i paesi vulnerabili, i quali devono far fronte alle perdite e ai danni (loss and damage) causati dal cambiamento climatico, senza esserne la causa. Il fondo è una richiesta di lunga data delle nazioni in via di sviluppo che si trovano in prima linea nel cambiamento climatico e che devono affrontare i costi della devastazione causata da eventi climatici estremi in continuo aumento, come siccità, inondazioni e innalzamento dei mari. L’accordo prevede che il fondo riceva almeno 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, ma attualmente il fondo ha ricevuto promesse per soli 792 milioni di dollari dai governi e secondo uno studio recente, le perdite e i danni dovuti al collasso climatico costerebbero circa 1.500 miliardi di dollari all’anno. Quindi intenzioni che per ora non si traducono in azioni. I versamenti al fondo saranno volontari, con i paesi sviluppati invitati a contribuire ma, sebbene siano state concordate regole su come funzionerà il fondo, non ci sono scadenze rigide, né obiettivi e i paesi non sono obbligati a pagare.  In particolare, l’importo annunciato dagli Stati Uniti di 17 milioni di dollari, sarebbe imbarazzante perché rappresenta poco più di una cifra simbolica. La Svizzera? Non si sa….

 Insomma, dopo 28 riunioni di “condominio Pianeta Terra”, emerge ancora preponderante l’idea che abbiamo tempo e possiamo permetterci un cambiamento graduale, senza intaccare le fondamenta strutturali, culturali ed economiche che il genere umano ha adottato, da pochi secoli a questa parte e che ci ha portato alla situazione attuale. Da quello che la scienza unanimemente dice però, più che di una transizione avremmo bisogno di una conversione! Cioè, un cambiamento radicale degli stili di vita, privata e pubblica. Non abbiamo il tempo necessario per un cambiamento soft e graduale.

In ogni caso, se il nome di Sapienti, che ci siamo dati da soli, corrisponderà al vero, lo vedremo presto. Vedremo se questa sapienza aiuterà la sopravvivenza della specie in questo periodo di profonde crisi. Ma per sapere se la capacità di ragionamento ed astrazione, che riteniamo sia unica della specie Homo e risiedente nel nostro complicato cervello, saranno un vantaggio evolutivo, dovremo aspettare 4,7 milioni di anni. Infatti, la vita media di tutte le specie su questo Pianeta è di 5 milioni di anni e noi abbiamo soltanto 300.000 di anni. In sostanza siamo dei bebè con una motosega in mano ed è molto facile farsi/fare del male.

Claudio Cianca

Articoli, Economia locale

Meno può essere meglio

Sono in fila incolonnati vanno tutti lenti come in una processione pagana verso l’altare del presunto affare.

Stanno in fila per ore in nome del Dio sconto introdottosi nelle nostre vite di sobbalzo, con un venerdi che da giornata dei prezzi stracciati è diventata settimana delle offerte imperdibili, e non puoi aprire giornale posta elettronica social cassetta delle lettere o apparecchio elettronico senza trovarti sotto minaccia psicologica: se non vieni da noi se non approfitti dei nostri prezzi scontati, sei un looser un poveraccio un buon a nulla.

Non ne posso piú del Black Friday, ve lo dico, e dei suoi addentellati, perché non ho mai sopportato le campagna aggressive al limite della violenza verbale, l’agguato di promozioni vere o presunte puntatemi contro come una minaccia, ma non possiamo affidarci al nostro libero arbitrio per capire se un oggetto ci serve realmente o se invece è solo il gusto del risparmio a far leva su di noi, il risparmio di cosa poi, se continuiamo  a correre come affamati appresso agli sconti sghignazzando che… te lo dicevo che ci portiamo a casa l’offerta migliore, dimenticando che dietro ad ogni oggetto ad ogni prodotto c’è un lavoro, ci sono delle persone e che tagliando i prezzi dei prodotti svuotiamo di senso e di valore anche il lavoro per la produzione di quegli oggetti. Ma perché non possiamo valutare da soli senza l’oscena insistenza della pubblicità e delle offerte urlate, se una cosa ce la possiamo permettere o no? Senza dover speculare sui saldi che ormai sono spalmati su tutto l’anno? Qualche cosa non mi quadra in questo mercato che ha i prezzi estensibili all’infinito in su ed in giú, qualcuno ci specula, qualcuno altro ci perde in termini di paghe e dignità, a monte e poi tutto quelle merci invendute buttate, persino le organizzazioni di raccolta dicono che ve ne sono troppi di vestiti nei container, ma soprattutto non sono piú utilizzabili perché di qualità bassissima.

In europa, malgardo aumentino le persone costrette all’indigenza viviamo nel troppo, nell’eccesso e nell’abbondanza con uno spreco vertiginoso di prodotti alimentari e di oggetti che finiscono accatastati, perché neppure sempre riciclabili, nelle discariche straripanti, lontan dagli occhi.

Mi piacerebbe, lo dico cosi come auspicio, che si introducesse la giornata del non consumo invece che le settimane del Black Friday… tutti questi saldi parlano di una disfunzione dei prezzi nel resto dell’anno, non serve un dottorato in economia per capire che il mercato dell’usa e getta, dai vestiti agli apparecchi elettronici è in eccesso e produce anche molti rifiuti, inquinamento soffocamento per l’altra parte del mondo dove i bambini sfruttati per i nostri giochi e vestiti  devono anche vivere respirando i gas tossici di prodotti che noi in europa non sappiamo e non vogliamo smaltire.

I disastri che la moda usa e getta infligge al pianeta sono oggi indiscussi, e sotto gli occhi di tutti, le cifre raccontate recentemente dal Wasghington post sono inquietanti: La maggior parte dei nostri abiti non viene portata oltre le dieci volte.

Certo l’idea di mantenere il proprio guardaroba per almeno due stagioni appare a molti un concetto arcaico, e invece sarebbe un gesto prezioso per la salvaguardia della salute della terra…

Dal secondo dopoguerra l’industria prima americana poi mondiale spinge al sovra consumo anche a causa della modalità di produzione a termine, ovvero l’obsolescenza programmata, ti vendo oggetti vestiti o apparecchi con durata limitata cosi ricompri piu spesso… ma se davvero la qualità ha un prezzo, quello deve essere, non si può stracciare…

Per fortuna v’è chi fa resistenza con laboratori di recupero di trasformazione di riparazione, di reimpiego di invenduti o di eccessi di produzione, evitando gli sprechi e aiutandoci ad avere occhi e reazioni diverse di fronte al mercato classico: Se una cosa funziona se una cosa ci piace perché gettarla, e lanciarsi nella rissa dei saldi che è cosi allettante…

Ed in conclusione mi chiedevo ma come mai il mio dentista non propone il black Friday? Perché dietro ogni lavoro c’è un Valore, che alcuni straciano.

Maria Pia Belloni

Ambiente, Articoli, Economia locale, Riparazione

Quali ostacoli alla riparazione (1)

Come abbiamo visto nell’articolo precedente, il Riparare è una componente dell’Economia Circolare, un modo virtuoso per allungare la vita dei prodotti, invece di buttarli via. Fino ad un paio di generazioni fa, riparare era ancora assolutamente normale. I mobili, le apparecchiature, i vestiti, le auto ecc. erano tutti costruiti secondo criteri di qualità. Le aziende costruttrici concorrevano tra di loro proprio sulla base della qualità dei loro prodotti, i quali (per tale ragione) non costavano affatto poco. Al di fuori della produzione seriale, l’artigianato aveva il suo spazio di economia e il saper fare qualcosa con le proprie mani era una qualità. Di solito un prodotto nuovo era migliore di uno meno nuovo, nelle funzionalità, ma nella sua qualità totale; era pensato per durare e per essere riparato, ma soprattutto rispondeva ad un’esigenza reale del consumatore. Se un oggetto od un vestito si rompevano, la prima opzione era sicuramente la riparazione e non l’acquisto del nuovo, questo anche per coloro che se lo sarebbero potuti permettere. Perché nel mondo prevalentemente agricolo dal quale proveniamo, era quasi (o forse sicuramente) un peccato, un delitto, buttare qualcosa che con un piccolo sforzo poteva ritornare ad essere usato. C’era anche una consapevolezza diffusa che uno spreco (che sia di energia o di materiale, ecc.) era una cosa assolutamente da evitare, anche quando non c’era carenza, perché si pensava a quando avrebbe potuto esserci. Oggigiorno sembra che il fattore economico abbia preso il sopravvento su tutto ciò. Le aziende concorrono esclusivamente sul profitto e qualsiasi cosa si possa fare per aumentarlo è intrinsecamente giustificata, magari in nome dei posti di lavoro che si forniscono o del benessere (o tanto-avere dovrei dire) che abbiamo. L’artigianato è quasi sparito e con sé tutto il sapere che ne conseguiva, anche in termini di capacità di riparazione. Veniamo al dunque, il criterio con cui le cose vengono oggi prodotte non è certo la qualità, ma avere il prezzo più concorrenziale possibile, per poterle vendere in grande quantità e che durino poco, in modo da sostituirle velocemente. Le voci principali che formano i costi delle aziende sono prevalentemente i salari ed i materiali; quindi, se si cerca in tutti i modi di diminuire entrambi, di conseguenza il nuovo non è migliore del vecchio, anzi. Per migliore si intende non solo la qualità dei materiali, ma anche come è stato progettato: se per durare o meno, se per essere smontato e riparato, se sono previsti pezzi di ricambio, se i materiali sono scelti in base al loro possibile riutilizzo o smaltimento. Nell’attuale produzione, la strada verso un’Economia Circolare è ancora lunga da percorrere. Le persone di buona volontà magari vorrebbero anche oggi riavere in funzione il loro oggetto preferito, ma troppo spesso il primo ostacolo per i riparatori è l’apertura dell’oggetto stesso: istruzioni di servizio o schemi funzionali sono un ricordo del passato, involucri fatti ad incastro di fragile plastica, viti impossibili da svitare se non con cacciaviti speciali, inserite in buchi impossibili da raggiungere, pezzi di ricambio inesistenti o carissimi. Insomma, come dicevamo prima, il prodotto non è stato progettato pensando che potesse essere aperto e riparato, ma solo gettato via, sostituendolo con uno nuovo. Ovviamente un prodotto così costa poco produrlo e costa tanto ripararlo, quindi non c’è partita. Per ora l’atto della riparazione è ancora un atto assolutamente controtendenza e controcorrente, in continua concorrenza con una produzione seriale a bassissimo costo, ma immaginate invece quanto lavoro potrebbe dare e quanto invece la grande produzione diminuisca i posti di lavoro (sostituendoli con l’automazione) per rimanere concorrenziali sul prezzo di vendita, la chiamano aumento della produttività. Il ruolo/potere del consumatore sarebbe nel far ritornare importante la qualità di ciò che si compra, la sua riparabilità, il servizio post-vendita, la disponibilità di pezzi di ricambio. A facilitare questa scelta, sarebbe bello se le etichette che obbligatoriamente oggi segnalano il consumo energetico degli elettrodomestici, tenessero conto anche di questi fattori, permettendo ai consumatori di orientarsi facilmente nell’acquisto. Ne parleremo nel prossimo articolo.

Ambiente, Articoli, Economia locale

Il concetto di Economia Circolare

Ultimamente si fa un gran parlare e scrivere di Economia Circolare, come qualcosa che può risolvere tutti i problemi legati all’ecologia, all’inquinamento e conciliarli addirittura con le esigenze dell’economia (così come è) e di uno sviluppo di tipo sostenibile. Ma difficilmente ci si prende la briga di approfondire, se sia qualcosa alla quale effettivamente porre l’attenzione, se sia una di quelle mere e astruse teorie degli economisti, oppure qualcosa di concreto, applicabile al giorno per giorno e a tutti noi. Innanzi tutto, se si parla di essa come ad un cambiamento da introdurre nei nostri sistemi di vita, di produzione di merci e servizi e nello smaltimento dei rifiuti, vuol dire che oggi non siamo “circolari” e quindi, in che tipo di economia viviamo? Attualmente, nei paesi industrializzati (ma ormai quasi ovunque nel mondo), siamo immersi in un’economia che ha come scopo unico l’aumento delle merci e servizi venduti, quindi si estraggono risorse ed energia dalla Terra, si producono oggetti, che si usano più o meno brevemente e poi immancabilmente, prima o poi, diventano rifiuti. È chiamata Economia Lineare, ovvero un processo ove non c’è nessun collegamento tra lo sfruttamento delle risorse che abbiamo a disposizione e il fine vita degli oggetti buttati via. Per ogni nuovo oggetto, si ritorna a fare affidamento solo su risorse nuove. Questo modo di produrre, consumare e gettare, comporta l’aumento dei rifiuti e degli inquinanti ed il depauperamento delle risorse a disposizione, le quali non sono infinite. In un’Economia Circolare invece, prima di produrre qualcosa di nuovo partendo da nuove risorse, si rimettono in circolo i prodotti in vari modi: riusandoli, riparandoli, condividendoli, riciclandoli.  In questa ottica i Caffè Riparazione, inventati dall’ACSI, sono perfettamente in linea con un’Economia Circolare, perché favoriscono la riparazione degli oggetti, i quali avranno una vita più lunga di quella prevista dal costruttore. Per ogni oggetto riparato, ci sarà un’oggetto in meno da buttare, smaltire e quindi meno nuove risorse da “rubare” alla Terra, meno rifiuti ed in teoria, anche meno costi per i cittadini che pagano la tassa rifiuti. Bisogna dire, in tutta onestà, che non c’è nulla di innovativo nel concetto di Economia Circolare, stiamo soltanto dando un nome e (ri)avvicinandoci a ciò che è la costituzione primaria della Natura. In essa non esiste neanche il concetto di rifiuto, perché qualsiasi cosa che nasce, compie il proprio ciclo di vita e poi si trasforma in qualcos’altro, senza che mai rimanga qualcosa non metabolizzato da qualche altro processo o altro essere vivente, i quali seguiranno un analogo iter, in un andamento appunto circolare. Fino alla seconda Rivoluzione Industriale (1870 circa), l’economia umana prevalentemente agricola ed il numero decisamente minore di persone, ci manteneva ancora all’interno di questi cicli. Da allora ad oggi abbiamo superato alla grande la capacità della biosfera di metabolizzare gli scarti umani; infatti, l’Overshoot day del 2022 (il giorno in cui si esauriscono le risorse rinnovabili che la Terra è in grado di rigenerare in un anno) è arrivato il 28 di Luglio ed ogni anno arriva prima, perché consumiamo sempre di più e sempre più in fretta. Che cosa fare? Tutto è perduto? Viste le differenze tra l’Economia Lineare e quella Circolare, nel prossimo appuntamento parleremo di quanti e quali ostacoli ci sono da rimuovere per (ri)passare da una all’altra, ma una cosa è certa, più persone parteciperanno ai Caffè Riparazione e più forte si farà sentire la volontà dei cittadini di questo Mondo a ritornare nei limiti del Pianeta Terra.